Giambattista Vico e l’Eterna Spirale della Storia
Quando si parla di filosofi italiani, i grandi nomi si sprecano: Dante, Machiavelli, Croce… Ma spesso viene trascurato un pensatore che, seppur meno sbandierato nei salotti accademici internazionale, ha avuto una delle intuizioni più profonde e visionarie dell’intera storia del pensiero occidentale. Parliamo di Giambattista Vico, napoletano, vissuto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, una mente vulcanica che navigava controcorrente, sfidando il razionalismo cartesiano e i dogmi del suo tempo con una voce originale, straripante e, soprattutto, profondamente umana.
Vico non era il classico pensatore da università prestigiosa. Nato nel 1668 in una Napoli turbolenta e teatrale, figlio di un modesto libraio, Vico cresce immerso nei libri più per istinto che per destinazione. Una caduta rovinosa da una scala a sette anni gli provocò una lunghissima convalescenza — e fu forse proprio in quell’isolamento forzato che si affilò la lama della sua visione. Studiò diritto, si barcamenò tra incarichi universitari malpagati e scrisse le sue opere principali tra mille difficoltà economiche. Uno di quei cervelli che oggi avrebbe fatto impazzire gli algoritmi di LinkedIn ma che all’epoca arrancava tra accademie miopi e una cultura dominata dal razionalismo gelido e matematico dell’epoca.
Ma quale fu il suo colpo di genio? La sua intuizione cardinala è qualcosa che oggi, a distanza di secoli, risuona con una forza sconvolgente: la Storia non è una linea retta, non è un susseguirsi di eventi misurabili e prevedibili, ma è piuttosto una spirale, un eterno ritorno modulato dalle strutture mitiche, linguistiche e simboliche dell’umanità.
Nella sua opera principale, la “Scienza Nuova”, pubblicata per la prima volta nel 1725, Vico getta le basi per una visione ciclica e poetica della storia. Secondo lui, ogni civiltà attraversa tre epoche fondamentali: l’età degli dei, dominata dalla religiosità e dal mito; l’età degli eroi, in cui si afferma la nobiltà e l’epica del gesto; e infine l’età degli uomini, governata dalla ragione e dalle istituzioni. Ma attenzione: questa non è una scala verso il progresso inarrestabile. Dopo l’età della ragione, c’è spesso un collasso, un ritorno alla barbarie — e così il ciclo ricomincia.
Così, Vico ci sbatte in faccia una visione tanto poetica quanto brutale: la ragione non basta. Pensare che l’umanità proceda in una progressione lineare da un passato oscuro a un futuro illuminato è una narrazione falsa, figlia di un’illusione tutta moderna. La vera chiave per capire la storia — e quindi l’uomo — è immergersi nelle sue narrazioni, nei suoi miti fondatori, nei linguaggi con cui interpreta il mondo.
E qui arriva un’altra chicca vichiana: l’idea che si possa conoscere veramente solo ciò che si è creati. “Verum factum”, dice Vico: il vero è il fatto. L’uomo può conoscere a fondo solo le cose che ha prodotto — e quindi non la natura, come pretendevano i cartesiani, ma la storia, la società, le istituzioni, i testi. Tanto per capirci: Newton capisce il mondo fisico, ma non lo ha creato. L’uomo invece ha creato la sua cultura, le sue leggi, i suoi miti — ed è lì che deve cercare la verità.
In parole povere: più che un filosofo della verità intesa come adeguamento fra pensiero e realtà, Vico è un filosofo della verità come opera — un artigiano del significato. La sua filosofia è una filosofia della poiesis, del fare creativo, e in questo senso anticipa di secoli molte intuizioni dell’ermeneutica, del moderno costruttivismo sociale e addirittura della semiotica strutturalista.
Ma facciamo un piccolo passo indietro. Il contesto in cui Vico scrive è quello di una Napoli affacciata sul Vesuvio — literal e metaforico. Politicamente, è una città sotto il dominio spagnolo, culturalmente dominata dall’aristotelismo scolastico e sempre più influenzata dalle correnti illuministe che filtrano da Francia e Inghilterra. La filosofia cartesiana, con il suo cogito glaciale e le sue idee chiare e distinte, era il mantra del tempo. E Vico? Vico era il guastafeste. Invece di cercare chiarezza e distinzione, esplorava la nebbia del mito, l’ambiguità del linguaggio, la densità simbolica dei testi antichi. Era anche profondamente cattolico, sì, ma attenzione: non un chierico conformista, bensì un pensatore che trovava nei testi sacri un’eco delle strutture profonde dell’anima collettiva.
Oggi, la sua rilevanza è più viva che mai. In un mondo che ancora si aggrappa al mito del progresso lineare, in un tempo dove l’intelligenza artificiale sostituisce la saggezza con l’efficienza, la voce di Vico ci ricorda che l’umano è molto più di razionalità applicata. È narrazione, è trauma, è memoria collettiva. È forma e trasformazione. Gli studi contemporanei di filosofia della storia, antropologia culturale, teoria della comunicazione e persino psicologia collettiva devono molto a Vico, anche quando non lo ammettono.
Molti filosofi contemporanei lo hanno rivalutato. Isaiah Berlin lo considerava una delle menti più originali del pensiero europeo, e Benedetto Croce lo elevò a padre dello storicismo moderno. Più recentemente, studiosi come Hayden White e Northrop Frye hanno trovato nella sua opera una prefigurazione della moderna narrativa storica mitopoietica. Qualcuno l’ha accostato a Nietzsche per via dell’impostazione ciclica della storia e della valorizzazione delle forze vitali e inconsce. Ma allo stesso tempo, Vico ha una delicatezza tutta sua, quella particolare miscela di erudizione e poesia che solo uno spirito napoletano del ‘700 poteva incarnare.
Naturalmente, non mancano i critici. Alcuni lo tacciarono (oggi come allora) di oscurità e confusione. Effettivamente, leggere la Scienza Nuova non è impresa per i deboli di cuore: il testo è denso, intricato, infarcito di riferimenti biblici, etimologie selvagge, e una forma quasi oracolare. Ma è proprio qui che sta la bellezza vichiana: nella sua capacità di rendere filosofico il mito e mitico il pensiero. In un’Italia che a volte ancora si vergogna del proprio barocco intellettuale, Vico è un esempio glorioso di come il pensiero possa essere allo stesso tempo rigore e fantasia, analisi e composizione, fiamma e argilla.
E così arriviamo alla fine di questo viaggio – o forse a un nuovo inizio, secondo la spirale vichiana. Giambattista Vico non è solo un pensatore del passato, ma un archetipo vivente del filosofo-poeta, una figura che ci invita a guardare la storia non come una successione di fatti, ma come un immenso poema fatto di civiltà, memorie, linguaggi e ritorni. In un mondo che si illude di conoscere grazie a dati e algoritmi, Vico ci ricorda che la vera conoscenza è quella che plasma, che si fa carne, che si racconta. E se la filosofia vuole ancora avere un futuro, forse farebbe bene a camminare, lenta ma inesorabile, sulla spirale di questo sublime napoletano.
By Martijn Benders – Philosophy Dep. of the Moonmoth Monestarium
storicismo, mito, linguaggio, ciclicità, verum factum, epistemologia, poesia