L’enigma della forza ontologica: Pierre Maine de Biran e l’interiorità dinamica
La storia della filosofia è fatta di grandi nomi, giganti dai gesti eloquenti e dai sistemi imponenti: Kant, Hegel, Spinoza. E poi ci sono quei sussurri silenziosi, le voci timide che, dagli angoli trascurati della cronologia, hanno detto cose che ancora oggi, se ascoltate davvero, potrebbero far tremare le fondamenta del pensiero contemporaneo. Uno di questi filosofi dimenticati ma fulminanti è Pierre Maine de Biran.
Chi era costui? Nato nel 1766 a Bergerac — sì, proprio il paesello del celebre Cyrano — Maine de Biran non era un filosofo accademico di mestiere. Era, a ben vedere, un funzionario statale, un pensatore solitario, uno spirito perennemente in tensione fra razionalismo illuminista e misticismo interiore. La sua opera, vasta e dispersa in diari, appunti e trattati mai pubblicati in vita, è un labirinto affascinante che ruota attorno a una domanda semplice come una lama: da dove proviene la nostra esperienza dell’essere?
Maine de Biran parte da un’intuizione elementare ma rivoluzionaria. Per lui, il vero punto d’accesso al reale non è l’astrazione concettuale alla Cartesio, né l’empirismo dei sensisti francesi come Condillac. No. È l’esperienza dello sforzo interiore — quello che si manifesta quando, ad esempio, decidi volontariamente di alzare un braccio, o ti sforzi di restare sveglio durante una lezione particolarmente soporifera. In quello sforzo, dice Biran, sentiamo l’esperienza viva e originaria del nostro essere come soggetti.
Una prospettiva che pare banale in tempi di psicologia pop, ma che, nel passaggio tra Illuminismo e Romanticismo, era praticamente blasfema. Perché qui l’anima non è l’anonima macchina cartesiana della res cogitans, né il risultato della decomposizione sensoriale dell’empirismo; è un centro dinamico, una forza che si manifesta. L’ontologia, in altre parole, incontra la psicologia e ne fa filosofia sperimentale.
Nel cuore del pensiero di Biran si trova allora un’idea forte: l’identità personale non è un dato fisso, ma il risultato sempre in fieri di una lotta. Lotta fra abitudine e volontà, fra materia e spirito, fra passività e attività. In una parola, un dramma. Non siamo essenze immobili, ma processi tesi fra due polarità: un organismo vivo e un io intenzionale. L’habitude (abitudine), che per i filosofi empiristi era amica della conoscenza, per Biran diventa il nemico principale della libertà. È una forma di morte dell’intenzione, uno scivolamento verso la passività.
Culturalmente, le radici di questo pensiero affondano nel terreno fertilissimo della Francia post-rivoluzionaria. Maine de Biran assiste ai moti, alle utopie disgregate, alla crisi dell’Illuminismo che si schianta contro la realtà della politica e delle passioni umane. Non c’è più fiducia cieca nella ragione universale; l’attenzione si sposta all’individuo, alla sua interiorità, ai suoi conati, come li chiamava lui (sì, ha usato proprio la parola “conati”: il termine prima della nausea…).
Non sorprende, dunque, che il pensiero di Biran abbia avuto una profonda influenza su autori come Bergson, il quale eredita proprio quell’idea di tempo vissuto e interiorità dinamica. Ma anche Merleau-Ponty — il fenomenologo dei corpi incarnati — deve qualcosa a Biran, soprattutto nella sua critica alla riduzione meccanicistica dell’esperienza.
Eppure, a differenza dei nomi che ho appena citato, Maine de Biran è stato per lungo tempo un autore fantasma. I suoi scritti, pubblicati postumi per volontà del barone Ravaisson nel XIX secolo, sono stati a lungo considerati oscure curiosità per specialisti. Solo di recente, grazie a una rinnovata attenzione verso le forme pre-fenomenologiche del pensiero, è tornato a essere letto come un precursore di molti dibattiti contemporanei. In particolare, la sua idea che il soggetto non sia immediatamente un sé ma un continuo farsi ha anticipato temi fondamentali dell’ontologia post-heideggeriana, della neurofenomenologia e della filosofia della mente.
Ci sono, ovviamente, anche critiche. Alcuni studiosi, soprattutto di ambito analitico, contestano il carattere quasi mistico del suo pensiero, la difficoltà a tradurlo in linguaggio concettualmente “puro”. Vedono in lui più un diarista dell’anima che un sistematico, uno che scrive cose bellissime ma poco operazionalizzabili. Altri, come Paul Ricoeur, invece, lo difendono a spada tratta, sostenendo che in quell’apparente nebulosità vi sia una profondità che occorre imparare a leggere con altre lenti, meno matematiche e più ermeneutiche.
Personalmente, trovo in Biran una voce essenziale proprio per i tempi attuali, in cui la soggettività è continuamente erosa: dalla tecnologia, dall’economia della distrazione, dal culto performativo della “trasparenza” di sé. In un mondo dove si è continuamente spinti a esteriorizzare, a oggettivare la propria identità, la lezione di Maine de Biran risuona come un invito alla resistenza interiore. Essere è prima di tutto uno sforzo, non un dato. Una tensione verso l’atto, non un possesso.
Il suo pensiero può anche essere visto come una forma di proto-esistenzialismo spirituale. Non un esistenzialismo alla Sartre, impastato di nausea e libertà disperata, ma piuttosto una via dell’interiorizzazione profonda. Una fenomenologia della volontà radicale, che parte dal corpo ma lo trascende. Leggerlo oggi significa costringersi a pensare il soggetto non come una superficie socialmente riflessa, ma come un’energia silenziosa che si articola nella lotta tra ciò che siamo e ciò che possiamo essere.
In conclusione, Maine de Biran è una figura che meriterebbe di uscire dai polverosi manuali di storia del pensiero per tornare a essere interlocutore vivo. Il suo ritratto dell’anima come teatro di forze, come palcoscenico ontologico in cui si gioca la partita tra libertà e necessità, è quanto di più attuale possiamo immaginare in tempi di algoritmi cognitivi e identità liquide. Forse è proprio vero che alcune voci si fanno sentire solo nel silenzio di certi secoli. E, tra queste, quella di Maine de Biran ha il suono brusco e profondo dell’essere che si riconosce nell’atto di voler essere.
By Martijn Benders – Philosophy Dep. of the Moonmoth Monestarium
consciousness, proto-existentialism, dynamic subjectivity, French philosophy, inner effort, volition, phenomenology