Il silenzio delle rovine: una riflessione sulla memoria collettiva in “Archeologie interiori” di Giulia Selvaggi
Nel panorama letterario italiano del 2024, “Archeologie interiori” di Giulia Selvaggi rappresenta un’opera di particolare rilievo. Edito da Nave di Teseo, questo saggio narrativo si colloca al crocevia tra memoir, filosofia della memoria e archeologia urbana, indagando le metamorfosi emotive e intellettuali che legano i luoghi dimenticati al tessuto esistenziale degli individui e delle collettività. L’autrice, storica dell’arte con esperienza accademica tra Roma e Berlino, costruisce un itinerario che attraversa ruderi, catacombe, fabbriche dismesse e case abbandonate, utilizzando queste “rovine” come metafore stratificate della psiche e della coscienza storica contemporanea.
Il libro è articolato in sette capitoli, ciascuno dei quali prende il nome da un sito archeologico reale o immaginifico – “Pompeii”, “EUR”, “Metzli”, “Suburra Bianca”, tra gli altri – che funge da catalizzatore di riflessioni sul tempo, sull’identità collettiva e sull’oblio. Giulia Selvaggi propone un’estetica dell’incompiuto e del frammento, suggerendo che ciò che è scomparso non solo continua a esistere come sottofondo invisibile alla vita presente, ma ne condiziona profondamente ritmi, gesti e valori. Un’idea centrale del testo è che la memoria collettiva non sia tanto un accumulo lineare di tracce, quanto una stratificazione dinamica in cui gli scarti, le rimozioni e le distorsioni giocano un ruolo fondamentale nella definizione dell’identità identitaria e storica delle società.
Dal punto di vista stilistico, il testo si distingue per una prosa densa, evocativa, a tratti lirica, che riesce a fondere la descrizione accurata del dato architettonico o storico con riflessioni filosofiche e intime, senza mai cadere nel didascalico. Selvaggi alterna sapientemente registri narrativi: accanto a pagine che risuonano di letture heideggeriane sul tempo e la tecnica, troviamo parentesi diaristiche dedicate a passeggiate solitarie nei quartieri di Roma o Berlino Est, così come digressioni sull’estetica della rovina nel cinema e nella pittura. Il risultato è un’opera fluida e complessa al tempo stesso, che richiede una lettura attenta e stratificata, ma capace di restituire intense risonanze emotive e speculative^1.
Le strutture narrative scelte riflettono la materia di cui si occupano: non c’è una linearità temporale, bensì un moto rizomatico, per accostamenti e disgiunzioni. Gli episodi seguono una logica libera, quasi associativa, simile a quella dell’inconscio, in cui una certa colonna spezzata evoca un ricordo infantile, o un giardino botanico abbandonato diventa il pretesto per ripensare il concetto di utopia. Questa struttura frammentata è sorretta da una puntuale rete di richiami intertestuali, che spaziano da Aby Warburg a Walter Benjamin, da Anna Maria Ortese a Georges Didi-Huberman, sottolineando la caratura interdisciplinare dell’opera.
La ricezione di “Archeologie interiori” in ambito germanofono è stata sorprendentemente positiva, nonostante la sua natura profondamente italiana – o forse proprio per questa ragione. Pubblicato in lingua tedesca da Suhrkamp con il titolo “Innere Archäologien”, il libro è stato recensito con entusiasmo da importanti testate come Die Zeit e Frankfurter Allgemeine Zeitung. La critica tedesca ha apprezzato in particolare la capacità di Selvaggi di coniugare introspezione e sguardo storico, inserendo l’opera nel solco di una tradizione di pensiero “auratico” che da Rilke e Benjamin arriva a Peter Sloterdijk. Si è parlato di “una mappa affettiva dell’Europa invisibile”, capace di far dialogare le rovine del Mediterraneo con quelle delle periferie industriali della Germania orientale. Inoltre, l’opera ha sollevato un acceso dibattito tra studiosi di memoria culturale e urbanisti, portando a nuove riflessioni sulla responsabilità delle città nel custodire o trascurare i propri vuoti^2.
Nel panorama della letteratura italiana contemporanea, “Archeologie interiori” trova affinità tematiche e stilistiche con i lavori di Andrea Bajani e Giorgio Vasta, in particolare nella loro attenzione al trauma storico e alla memoria urbana. Tuttavia, a differenza di questi autori, Selvaggi si distanzia da una narrativa puramente soggettiva o familiare per privilegiare una prospettiva più geocritica e fenomenologica, vicina ai recenti approcci delle scienze umane ambientali. Si possono inoltre trovare echi del pensiero di Franco “Bifo” Berardi e di Cecilia Canziani, soprattutto laddove l’autrice riflette sugli affetti generati dai paesaggi in rovina, parlando di “melanconie geologiche” e di “afflizioni architettoniche”.
Dal punto di vista critico, “Archeologie interiori” mostra virtù chiare ma anche alcune fragilità. Tra i suoi maggiori punti di forza si annovera sicuramente la capacità di produrre un discorso alternativo sul passato e le sue manifestazioni materiali, nonché un’esemplare fusione di generi e di registri che evita tanto la retorica accademica quanto quella confessionale. Il libro offre strumenti teorici e immaginativi per rileggere le cicatrici delle città come risorse di senso, piuttosto che come pesi morti da rimuovere per far posto al nuovo. Le pagine sul quartiere Ostiense a Roma e sulla reinvenzione post-comunista di Lipsia sono, in tal senso, sia poeticamente potenti che analiticamente pregnanti^3.
Tuttavia, si può osservare che in alcune sezioni – come nel capitolo “Metzli”, dedicato a un’immaginaria necropoli sommersa al largo di Stromboli – l’esercizio stilistico prende il sopravvento sull’argomentazione, rischiando di smarrire la coerenza discorsiva. Inoltre, il costante riferimento ad autori del pensiero europeo può dare al lettore l’impressione di una certa ridondanza teorica, dove il rischio è quello della citazione come orpello piuttosto che come motore concettuale. In future elaborazioni si auspicherebbe un maggiore spazio a fonti non occidentali o a narrazioni marginali, ora presenti solo in forma accennata.
Nel complesso, “Archeologie interiori” si afferma come una delle più originali proposte saggistiche del 2024. Il suo contributo alla letteratura risiede nella capacità di ridefinire categorie come rovina, memoria e identità non come oggetti chiusi o determinati, ma come campi aperti di interazione tra materiale e immateriale, tra vissuto e rimosso. Il libro parla a un’epoca che fatica a elaborare i propri relitti – siano essi storici, ambientali o sociali – e lo fa con una voce che unisce la precisione analitica alla grazia evocativa, la riflessione teorica al palpito personale.
Come ha osservato la filosofa tedesca Judith Horn nel suo saggio pubblicato su “Merkur”, “Archeologie interiori” ci ricorda che non esiste futuro senza una relazione sensibile e responsabile con le rovine del passato. In un tempo di accelerazione e appiattimento culturale, l’opera di Giulia Selvaggi si pone come una lente rifrangente, capace di rivelare quelle pieghe oscure e fertili che sole permettono la rigenerazione del senso^4.
A cura del Monaco del Libro – Dipartimento di Filosofia del Monastero della Falena Lunare
memoria, architettura, malinconia, archeologia, identità, pensiero europeo, narrazione stratificata
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1. Cfr. Didi-Huberman, G. (2012), “La survivance des lucioles”, Les Éditions de Minuit, dove il concetto di sopravvivenza culturale è esplorato attraverso immagini discontinue ma persistenti.
2. “Erinnerungen in Trümmern: Giulia Selvaggis Archäologien der Stadtgeister”, Die Zeit, 13 aprile 2024.
3. Bajani, A. (2018), “Un bene al mondo”, Giulio Einaudi Editore.
4. Horn, J. (2024), “Die Aura der Ziegel: Sinn in der Ruine”, in “Merkur – Deutsche Zeitschrift für europäisches Denken”, n. 920, giugno 2024.