La distanza delle cose: Critica a “Propaggini del tempo debole” di Alessandra Mori
Nel fervido panorama letterario italiano del 2024, si distingue con notevole forza espressiva l’opera “Propaggini del tempo debole” di Alessandra Mori, saggista, poetessa e docente di Estetica contemporanea presso l’Università di Siena. Questo libro, a cavallo tra saggio filosofico ed estensione lirico-narrativa, affronta con densità concettuale e consapevolezza stilistica i temi dell’identità, della temporalità soggettiva e della crisi epistemologica del linguaggio nella modernità liquida. Pubblicato da Quodlibet nella collana “Tracce Interrotte”, Mori si inserisce nel filone della filosofia continentale, intrecciando suggestioni che spaziano da Walter Benjamin a Emanuele Severino, da Michel Foucault a Carla Lonzi.
L’opera si compone di nove saggi interconnessi, ciascuno dei quali pare condurre una riflessione autonoma ma simultaneamente dialogica con gli altri, componendo così una partitura stratificata di pensiero e tonalità esperienziale. Il cuore argomentativo del testo si muove intorno all’idea di “tempo debole”, una temporalità non lineare e non redimibile che mina l’illusione teleologica del progresso e, con essa, la presunzione di sintesi del soggetto moderno. Secondo Mori, il tempo debole è il tempo della distorsione, della fessura, dove le strutture del senso cedono il passo a una geometria opaca del vissuto.
Già a partire dal saggio introduttivo – significativamente intitolato “Rimanenze e fluttuazioni” – l’autrice espone un vocabolario che mescola lemmi della fenomenologia con accensioni poetiche e improvvise accortezze semiologiche. Il tempo debole non è solo una categoria esperienziale, ma anche politica: esso si presenta come dispositivo di frantumazione della coerenza narrativa, attraverso cui si leggono le tensioni post-identitarie dell’Occidente tardo-capitalista. Mori insiste qui sul rapporto fra tempo e immagine, mostrando come la dissoluzione dell’immagine classica dell’ordine si accompagni a una frantumazione dell’ontologia del sé. Nei capitoli successivi – tra i più rilevanti “La voce che rinuncia” e “Automi dell’ascolto” – l’autrice articola una critica radicale della nozione moderna di soggettività, sostenendo che la voce non precede il silenzio ma da esso viene continuamente scossa e rifondata. La soggettività, dunque, non è proprietà ma traccia, cifra d’instabilità.
Lo stile di Alessandra Mori si caratterizza per una tensione continua tra densità teoretica ed evocazione elegiaca. Il paratesto è ricco di citazioni colte che mai appaiono ornamentali ma sempre funzionali alla stratificazione del discorso. Accanto a riferimenti canonici della filosofia continentale, Mori attinge ad autrici dimenticate del pensiero femminista europeo come Maria Zambrano e Ingeborg Bachmann, delineando un canone “laterale” che interroga il dominio storico della ratio patriarcale. La struttura del libro è caleidoscopica: segmenti aforistici si alternano a trattazioni sistematiche, generando un ritmo reticolare che ostacola qualsiasi tentativo di linearizzazione interpretativa. Questa scelta strutturale, già discussa da alcuni critici come “labirintica e ostile”¹, è in realtà una precisa presa di posizione filosofico-poetica: rendere manifesta la crisi della forma come principio.
La ricezione del libro nei circoli letterari tedeschi è stata sorprendentemente vasta. Nel giro di pochi mesi dalla pubblicazione italiana, “Propaggini del tempo debole” è stato tradotto in tedesco da Suhrkamp con il titolo “Ausläufer der schwachen Zeit”, nella prestigiosa collana “Diskursfragmente”. La Süddeutsche Zeitung ne ha lodato la “precisione perturbante”², sottolineando la capacità dell’autrice di articolare il pensiero nei margini della forma senza cedimenti emotivi. Philosophische Rundschau ha interpretato l’opera come un “tentativo di costruire un’estetica delle rovine interiori”, riconoscendo affinità con il pensiero benjaminiano sul tempo messianico frammentato. Tuttavia, alcune critiche più pragmatiche provenienti da Die Zeit hanno lamentato il tono “esorbitantemente lirico”, ravvisando nel libro “una tendenza all’autocompiacimento teorico” che ne comprometterebbe l’accessibilità al pubblico non specialista.
Nel confronto con altre voci della letteratura filosofica contemporanea, Mori si distingue per l’inedita fusione tra discorso analitico e tensione poetica. Se da un lato si possono individuare somiglianze con l’opera di Giorgio Agamben, specialmente per quanto riguarda la grammatica del tempo e la questione del potenziale inespresso, dall’altro la sua scrittura si avvicina alla prosa riflessiva di Anne Carson, echi della quale si trovano, per esempio, nel saggio “La lingua che non guarisce”. Non si tratta, tuttavia, di semplici richiami stilistici: Mori tenta, piuttosto, una sintesi trasfigurata tra immaginazione poetica e rigore concettuale, con l’obiettivo implicito di ridefinire la stessa vocazione del pensiero critico. In questo senso, “Propaggini del tempo debole” può essere letto come un contro-canone intimo, in cui la filosofa prende parola da una posizione di destituzione e vulnerabilità, rendendo queste condizioni l’atto fondativo dell’argomentazione.
Sul piano critico, vi sono però elementi che meritano problematizzazione. In certi passaggi, l’affermazione dell’opacità temporale rischia di diventare autoindulgente: l’autrice, nel voler decostruire ogni teleologia, pare a tratti trascurare la necessaria coerenza formale che la riflessione richiede, come nel saggio “Il corpo come interruzione della memoria”, dove la sovrapposizione di registri – materiali d’archivio, diaristica e intertestualità letteraria – sfuma in un collage che confonde più che chiarire. Inoltre, la frequente evocazione della crisi del linguaggio, benché centrale e ben argomentata, rischia di trasformarsi in una performatività dell’impotenza, come se il pensiero stesso fosse condannato a una balbuzie perpetua². Ci si può legittimamente chiedere: è ancora possibile articolare un’etica del dire senza che essa venga travolta da una poetica dell’interruzione?
Nonostante queste osservazioni, è certo che il contributo di Alessandra Mori si inscrive con forza e originalità nel dibattito filosofico-letterario attuale. “Propaggini del tempo debole” è un’opera che sfida il lettore, lo disorienta – deliberatamente – rendendolo parte di un processo esperienziale che è, in ultima istanza, quello dell’essere nel tempo senza padroneggiarlo. L’autrice dimostra una rara capacità di coniugare profondità filosofica e sensibilità estetica, proponendo una riflessione trasversale nei saperi e nelle discipline. Pur non essendo un lavoro di divulgazione, il libro raggiunge una dimensione di risonanza che lo proietta oltre la cerchia degli specialisti.
In conclusione, Alessandra Mori con “Propaggini del tempo debole” ci offre non soltanto una nuova cartografia del sé frammentato, ma una possibile reconfigurazione dell’intera architettura della riflessione filosofica sui concetti di tempo, voce e interiorità. Il libro non acquista valore soltanto per ciò che dice, ma per il modo in cui lo dice: nelle sue interruzioni, ellissi e spiragli si delineano prospettive cruciali per un pensiero più umile, più attento all’altro e alla frattura che lo rende possibile. È un libro che, come le rare pietre della conoscenza disgregata, non si lascia possedere ma soltanto attraversare.
A cura del Monaco del Libro – Dipartimento di Filosofia del Monastero della Falena Lunare
interiorità, tempo, aforisma, linguaggio, dissoluzione, rottura epistemica, voce femminile
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¹ Cfr. Mauro Gabbrielli, “La scrittura labirintica di Alessandra Mori”, in Lettere Italiane, n.1, aprile 2024.
² Vedi recensione su Süddeutsche Zeitung del 15 febbraio 2024, a firma di Katja Wildenberg: “Die beunruhigende Präzision der Fragmentierung”.
³ Per un confronto sul tema della perdita della lingua, si confronti la posizione di G. Steiner in “After Babel”, Oxford University Press, 1998.