La Terra Dietro il Cristallo: Critica a “Le forme del silenzio” di Matteo Ruggeri
Con la pubblicazione del suo ultimo lavoro, “Le forme del silenzio” (Einaudi, 2024), Matteo Ruggeri si impone tra le voci più sofisticate della narrativa italiana contemporanea. Filosofo di formazione e scrittore dallo stile ermetico e ricercato, Ruggeri tenta un’ardita indagine sulla natura del tempo, della memoria e dell’identità, intrecciando narrazione, meditazione saggistica e frammento lirico. Attraverso la figura del protagonista, il restauratore di miniature medievali Leone Varani, il testo guida il lettore in un’esplorazione dell’invisibile, dove la parola si scioglie progressivamente nel silenzio, accolto non come assenza, ma come forma superiore di espressione.
Il romanzo si apre in una Bologna notturna e umida, dove Varani lavora nel suo laboratorio interrato, silenzioso come una navata romanica. Attraverso il restauro di un manoscritto cistercense del XIII secolo – il cosiddetto “Libro delle Periferie” – il protagonista entra in un lento processo di smarrimento ontologico, in cui testo e realtà sembrano compenetrarsi. Le miniature si animano, il silenzio del colore si sovrappone al silenzio della parola, mentre la sua percezione del tempo si frantuma. La narrazione prosegue tra digressioni storiche, carteggi immaginari con monaci e filosofi dimenticati, e visioni oniriche che ricordano le ombre simboliste di Gustave Moreau. Presto diventa chiaro che il romanzo non è semplicemente una storia, ma un dispositivo metafisico teso a indagare i limiti della rappresentazione, l’immanenza dell’assenza, e l’inevitabile fallimento del linguaggio.
Sul piano stilistico, Ruggeri si distacca volutamente dalla linearità e dalla trasparenza comunicativa. La sua prosa rivela, piuttosto, un gusto per la spezzatura sintattica e la densità semantica. I periodi sono costruiti come labirinti, pieni di echi letterari (Nietzsche, Celan, Cristina Campo), mentre il lessico sconfina deliberatamente nell’arcaico. In questo senso, il testo oscilla tra racconto e meditazione filosofica, mostrando un’ibridazione tipica di certa letteratura francese d’inizio Novecento (si pensi a Péguy o a Bernanos). La struttura generale dell’opera è decostruita. Non c’è una trama tradizionale, né uno sviluppo lineare degli eventi. Tutto si svolge in una circolarità temporale che ricorda l’eterno ritorno nietzschiano: ogni visione di Varani è, in realtà, ripetizione di un’altra, sfumatura di un’allegoria che si fa più oscura col passare delle pagine.
I capitoli sono scanditi da serie di silenzi contrassegnati da simboli grafici (□, △, ∞), che funzionano come pause liturgiche o inviti alla meditazione. Alcuni di questi segmenti durano diverse pagine e consistono unicamente in descrizioni minuziose di textures visive: le screpolature dell’oro, le ombre nei margini dei fogli, le minuscole imperfezioni della pergamena. Questo aspetto, a una lettura superficiale, potrebbe apparire manierista o addirittura esoterico. Ma interpretato secondo la chiave fenomenologica che attraversa tutta l’opera, questo continuo rinvio alla pura visualità rimanda alla convinzione che la presenza si dia solo attraverso il velo della rappresentazione, e che quest’ultima non può mai essere completamente trasparente¹.
In Germania, “Le forme del silenzio” ha riscosso una sorprendente attenzione, grazie a una traduzione precoce ed eccellente curata da Ernst Holzeck per Suhrkamp. Alcuni critici, come Hannah von Schlegel sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, lo hanno definito “un’opera-trincea, dove il linguaggio si ritira per difendere l’inviolabile mistero dell’essere”. Altri, come Tobias Rathenau su “Literaturen”, vi hanno trovato un’eccessiva autoreferenzialità, affermando che “la vocazione all’abisso stilistico non compensa una mancanza di urgenza narrativa”.
Molto meno ambivalente è stata l’accoglienza nel circuito universitario germanico. Durante il convegno “Metafisica e Narrazione dopo la Morte dell’Autore” organizzato dalla Freie Universität di Berlino lo scorso aprile, Ruggeri è stato lodato per aver “restituito alla parola scritta il suo enigmatismo ontologico, sottraendosi alle logiche seriali del realismo psico-sociale”². In effetti, “Le forme del silenzio” si iscrive pienamente in quella tendenza neosimbolista che, da Mathias Énard a Olga Tokarczuk, ha tentato di restituire alla letteratura europea la sua vocazione sacrale e meditativa, opponendosi all’immediatezza digitale e alla narrazione postmoderna decostruzionista.
A rafforzare questo parallelismo è la somiglianza strutturale con opere quali “Zettel’s Traum” di Arno Schmidt e “Le Benevole” di Jonathan Littell. C’è, come in quegli esempi, una vocazione all’eccesso: una volontà di costruire un macrotesto che avvolga, ipnotizzi e stremi il lettore, sottraendogli la comodità di un’identificazione semplice. Ma, diversamente da Littell, Ruggeri non sembra volere tanto scandalizzare quanto rivelare – non l’orrore storico bensì l’orrore ontologico del non-essere. Un altro punto di riferimento plausibile è il Giorgio Manganelli delle “Centurie”, specialmente nella capacità di condensare in poche righe una pensosità cosmologica.
Al di là dei paragoni, “Le forme del silenzio” mostra innegabili punti di forza: una scrittura cesellata con amore quasi funebre per le parole dimenticate, una struttura che richiede (e premia) una lettura lenta e attenta, e una tensione spirituale che accompagna tutto il testo. In un’epoca affetta da indigestione narrativa, Ruggeri osa proporre il vuoto come contenuto e il silenzio come voce. Si tratta di un coraggio che non tutti sapranno apprezzare, ma che merita rispetto. Tuttavia, non si possono ignorare alcune debolezze. In particolare, la rarefazione della trama e l’estrema intellettualizzazione delle immagini potrebbero escludere un pubblico più vasto. Inoltre, alcuni passaggi dell’opera (specialmente nella seconda parte, intitolata “Il Monastero Estinto”) cadono in un ermetismo forzato, dove l’autore sembra più preoccupato di costruire enigmi che non di suggerire rivelazioni.
Dal punto di vista filosofico, l’opera si muove tra i sentieri di una fenomenologia estetica à la Marion e una teologia negativa che prende a prestito alcune intuizioni dionisiane e cabalistiche. Vi è il culto della bellezza silenziosa, ma anche l’orrore del pieno: il significato si presenta solo come traccia, mai come presenza piena. Questa impostazione è originale nel panorama italiano contemporaneo, dominato da un realismo che poco spazio lascia al simbolo e alla speculazione³.
In conclusione, “Le forme del silenzio” rappresenta una sfida etica ed estetica. È un’opera che, pur non arrivando a tutti, parla ai pochi con una voce interiore chiara e cristallina – quasi fosse pronunciata da una serra di vetro nel cuore del tempo. Ruggeri firma qui il suo libro più compiuto, e anche quello potenzialmente più duraturo, perché non teme di fallire là dove la letteratura trova la sua radice: nel silenzio che precede e segue ogni senso.
A cura del Monaco del Libro – Dipartimento di Filosofia del Monastero della Falena Lunare
linguaggio, neosimbolismo, fenomenologia, silenzio, estetica, metafisica, decostruzione
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¹ Cfr. Jean-Luc Marion, “L’idolo e la distanza: cinque studi”, Milano: Vita e Pensiero, 2001.
² Atti del convegno “Metafisica e Narrazione dopo la Morte dell’Autore”, Berlino: Freie Universität, aprile 2024.
³ Si veda anche: Fabio Ottonieri, “Realismo e melancolia nel romanzo italiano contemporaneo”, in “Nuovi Argomenti”, n.75, 2023.