Le forme del silenzio: una critica a “Nel corpo del tempo” di Elena Moretti
Nel panorama letterario italiano del 2024 si è distinto con inusitata eleganza e gravità il romanzo-saggio “Nel corpo del tempo” di Elena Moretti, autrice già nota nel circuito universitario per i suoi studi sull’estetica decostruttiva e sul pensiero di Maurice Blanchot. Con quest’opera, Moretti segna un punto di svolta sia nella propria ricerca stilistica sia nell’interrogazione filosofica del rapporto tra linguaggio, corpo e memoria. Pubblicato da Edizioni Gromm, il volume si presenta come una stratificazione testuale in cui l’autobiografia immaginaria si fonde al saggio filosofico e alla prosa poetica, secondo una prassi ormai cara ad autori come Valerio Magrelli e Giorgio Agamben.
Il testo ruota intorno alla figura di Livia, una ex danzatrice che ha perduto l’uso delle gambe a seguito di un incidente. Isolata nella sua casa sull’Appennino emiliano, Livia riflette sul proprio passato, sui gesti dimenticati dalla carne e sui silenzi che circondano il dolore. La narrazione si sviluppa in sezioni frammentarie, ognuna delle quali porta il nome di un senso (Udito, Tatto, Vista, Gusto, Olfatto), quasi a costruire un sistema percettivo alternativo – simbolicamente letterario – attraverso cui la protagonista tenta di reinventare la propria presenza nel mondo. La traccia filosofica che guida il libro è quella di un tempo incarnato, non come successione calendaria bensì come sedimentazione nel corpo, «una carne del ricordo» che sfugge alla cronologia ma non alla corporeità della parola.
Lo stile di Moretti è marcatamente simbolico, spesso rarefatto, talvolta volontariamente ellittico. La scrittura si piega su sé stessa, esplorando i limiti semantici della lingua italiana senza ricorrere ad artifici eccessivi. Degno di nota è l’uso del paratesto — ogni sezione si apre con citazioni tratte da autori come Simone Weil, María Zambrano e Clarice Lispector — che orientano la ricezione e costruiscono una rete di risonanze concettuali tra oriente e occidente, tra mistica e corporeità. La struttura del volume, lontana da ogni linearità, produce un effetto di immersione lenta: l’autrice rifugge da ogni climax narrativo per sostituirlo con una tensione quieta, quasi contemplativa, che richiama l’estetica del vuoto nel pensiero zen^1.
Nei circoli letterari tedeschi, “Nel corpo del tempo” ha suscitato curiosità e riflessione, con reazioni critiche tendenzialmente favorevoli ma non senza riserve. La traduzione tedesca, firmata da Edith Heinemann e pubblicata da Suhrkamp sotto il titolo Im Körper der Zeit, ha ricevuto una recensione approfondita su Die Zeit, il cui critico literario Klaus Bernhardt ha parlato di «un’opera che trasforma il silenzio in una forma di resistenza poetica». Tuttavia, alcuni recensori hanno lamentato una certa difficoltà d’accesso, specie per un pubblico non accademico, evidenziando come la scrittura di Moretti, seppur affascinante, rischi a tratti di indulgere in un’esasperazione lirica fine a sé stessa^2.
Sul piano comparativo, il lavoro di Elena Moretti si inserisce a pieno titolo entro quella corrente di scrittura filosofico-letteraria che in Italia ha avuto recenti manifestazioni in opere come “Il libro delle lacune” di Francesca Capelli (2022) o “L’onomasia dei corpi” di Tommaso Vichi (2023). Tuttavia, rispetto a questi testi, Moretti mostra una maggiore ambizione ontologica: mentre Capelli lavora sul trauma attraverso il linguaggio simbolico e Vichi analizza la nomenclatura biologica con rigore semiotico, la forza di “Nel corpo del tempo” risiede nella capacità di interrogare il fondamento stesso del tempo come esperienza incarnata. In ciò, l’opera si avvicina più ai tardi scritti di Jean-Luc Nancy o al “Tempo e racconto” di Paul Ricoeur, adattando tali riferimenti a un tessuto linguistico specificamente italiano^3.
Dal punto di vista critico, il romanzo presenta innegabili punti di forza. Innanzitutto la costruzione coerente di una voce autoriale: Moretti riesce a incarnare una soggettività fragile senza mai abbandonarsi al sentimentalismo né all’autocommiserazione. Il personaggio di Livia, pur profondamente ferito, conserva un’intelligenza acuta, critica, a tratti ironica, che ricorda la cifra stilistica di Anna Maria Ortese. Inoltre, la riflessione sul corpo disabilitato si emancipa da ogni schema vittimistico, diventando anzi veicolo di un pensiero capace di attraversare le categorie di normalità, bellezza e identità.
Tuttavia, non mancano le debolezze. Alcuni passaggi, specie nella sezione “Gusto”, sembrano eccessivamente autoreferenziali, indugiando in descrizioni sinestetiche che, pur suggestive, disperdono la coerenza argomentativa del testo. Inoltre, la complessità filosofica, sebbene raffinata, rischia di escludere una parte del pubblico potenziale: il lettore non avvezzo a concetti come “dismorfismo ontologico” o “metabasi fenomenologica” potrebbe trovarsi disorientato. Questo solleva la questione dell’accessibilità dell’opera, problematico nodo sospeso tra le esigenze dell’elaborazione intellettuale e l’urgenza comunicativa^4.
In conclusione, “Nel corpo del tempo” rappresenta un contributo notevole alla letteratura italiana contemporanea, tanto per il suo coraggio espressivo quanto per la densità delle questioni sollevate. In un’epoca dominata spesso da narrazioni seriali e ipersemplificate, il volume di Elena Moretti invita a una lettura lenta, meditativa, che riconsegna al lettore il piacere della complessità. L’intreccio tra filosofia e letteratura, lungi dall’essere un mero esercizio di stile, si fa qui atto politico: nei corpi marginali, nei gesti mutilati, nei tempi assenti, si annida una nuova possibilità di percepire l’essere. “Nel corpo del tempo” non è solo un libro da leggere, ma un campo esperienziale in cui abitare — o, per citare l’autrice, “un luogo dove la parola non si dice, ma si ricorda”.
A cura del Monaco del Libro – Dipartimento di Filosofia del Monastero della Falena Lunare
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1. Cfr. Suzuki, D.T. “L’essenza dello Zen”, Milano: Adelphi, 2017. Il concetto di vuoto come pienezza percettiva è centrale nel confronto tra estetica orientale e sensibilità minimalista dell’autrice.
2. Bernhardt, Klaus. “Die Poesie der Abwesenheit”, in Die Zeit, marzo 2024. Recensione della traduzione tedesca dell’opera di Moretti.
3. Ricoeur, Paul. “Temps et récit. Tome I-III”, Paris: Seuil, 1983-1985. L’influenza ricœuriana è esplicita nell’impostazione della memoria come costruzione narrativa.
4. Debray, Régis. “Nella selva delle metafore”, Firenze: Le Lettere, 2010. Per una discussione sull’equilibrio tra erudizione e comunicabilità nel testo letterario.