Nel labirinto della parola: Una critica a “Il suono del principio” di Elena Ugolini
Nel corposo panorama letterario italiano del 2024, “Il suono del principio” di Elena Ugolini si impone come un’opera densa, stratificata e potentemente evocativa, in dialogo costante con dimensioni filosofiche, linguistiche e metafisiche. Pubblicato da E/O Edizioni nel gennaio di quest’anno, il libro ha già segnato un punto di svolta nel modo in cui la narrativa italiana affronta il rapporto tra linguaggio, coscienza e tempo. Ugolini, al suo quinto romanzo ma ormai considerata una delle voci più autorevoli della nuova narrativa filosofico-letteraria, costruisce un’opera ibrida, tra il trattato sapienziale e il racconto mitico, che ha riscosso reazioni notevoli tanto nei circoli letterari italiani quanto in quelli tedeschi, per ragioni tanto stilistiche quanto ideologiche.
Il testo si presenta come una serie di riflessioni, narrazioni interrotte e immagini oniriche centrate intorno all’idea del “suono originario”, una metafora che l’autrice usa per esplorare la nascita del pensiero umano, la fonazione come gesto esistenziale, e l’alba del tempo individuale. Alternando episodi biografici immaginari, diarii linguistici e voci di personaggi archetipici (tra cui una cantatrice muta, un vecchio tipografo cieco e un bambino che sogna in numeri), Ugolini decostruisce la linearità narrativa per fare spazio a una forma oscura e ossimorica, che ella stessa definisce “eco-struttura”.
L’argomento centrale — il primo suono, o meglio, l’eco del principio che ancora vibra nei nostri sistemi cognitivi e nella sostanza ontologica del linguaggio — si presta a una molteplicità di interpretazioni. In un passaggio cruciale del libro, si legge: “Non fu il Verbo l’inizio. Fu il rumore prima del Verbo. Un tremore sordo e primordiale che oggi chiamiamo possibilità.”^1 Quest’affermazione condensa l’ambizione filosofica dell’opera: offrire un’alternativa mitopoietica al logos tradizionalmente inteso.
Lo stile della Ugolini è insieme lirico e analitico, immerso in una rarefatta autarchia retorica che richiama, per densità e visionarietà, la prosa di Anna Maria Ortese e alcuni passaggi di Clarice Lispector. La struttura del libro è volutamente frammentaria, non obbedendo a una costruzione narrativa classica ma riflettendo l’articolarsi non-lineare del pensiero fonologico e della memoria ancestrale. In ciò si avverte una chiara influenza di Georges Bataille e degli studi di Julia Kristeva sulla pulsione semiotica nella lingua poetica^2. Ugolini evita con maestria ogni concessione alla retorica del romanzo psicologico, preferendo esplorare il terreno liminale tra parola e silenzio, narrazione e afasia.
In Germania, il libro è stato accolto con sorpresa e ammirazione, soprattutto nei circuiti accademici di filosofia del linguaggio e semiotica. In una recensione pubblicata dalla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, la critica Anne-Lieke Graf ha definito “Il suono del principio” «una rara incursione nella poiesis ontologica», paragonandolo in chiave moderna allo “Zettelkasten” di Luhmann per la sua forma modulare e autoreferenziale^3. Tuttavia, non sono mancate critiche relative alla “ermeticità eccessiva” del testo: alcuni lettori hanno sottolineato come la mancanza di una trama coerente e i continui scarti discorsivi creino un’esperienza di lettura ostica, se non alienante. Ugolini, però, non pare interessata a soddisfare aspettative narrative ordinarie — semmai, il suo obiettivo evidente è indurre il lettore in una crisi epistemologica del linguaggio stesso.
Nel confrontare questo testo con altre pubblicazioni recenti in ambito europeo, si nota come “Il suono del principio” si collochi nello stesso alveo di alcune opere ibride come “El tiempo entre las sílabas” di Clara Lledó o “Sprechmaschinen” di Henrik Lachmann, anch’esse orientate verso lo smantellamento del logos come struttura centripeta del narrato. Tuttavia, rispetto a questi autori, Ugolini adotta una postura meno metafisica e più anacoreticamente sapienziale: è il silenzio post-verbale a interessarla, più che le forme del dire. L’opera stabilisce così una profonda assonanza — voluta o meno — con l’anti-discorsività della mistica medievale, specialmente quella di Meister Eckhart e Marguerite Porete^4.
Sul piano tematico, il libro affronta anche la questione del trauma linguistico: come e quando perdiamo la possibilità di dire? E cosa resta, se non il suono? Si tratta di interrogativi che trovano riverbero nell’esperienza contemporanea del sovraccarico comunicativo. Ugolini lavora contro la parola inflazionata, restaurando alla voce un valore telurico, quasi rituale. Tuttavia, proprio questa inclinazione ritualistica può diventare un limite, soprattutto per il lettore meno addestrato alla lettura simbolica e non-lineare: alcuni brani del testo appaiono eccessivamente ridondanti o artificiosamente criptici.
Nel valutare i punti di forza dell’opera, emerge indubbiamente la coerenza teorica con cui l’autrice porta avanti la sua visione. Ugolini non concede compromessi alla leggibilità, e ciò, in un’epoca dominata da instant-book e romanzi-memoir, risulta un atto di resistenza estetica: uno degli aspetti più encomiabili dell’opera. L’intertestualità è sofisticata: dalla prosodia taoista al grammelot dantesco, dalla linguistica strutturale agli haiku zen, ogni frammento trasmette un’assonanza segreta, un’eco che si riconduce al “suono del principio”.
Sul versante opposto, la mancanza di una direzione emozionale chiara — di un punto di legame forte con la sensibilità personale del lettore — può produrre un effetto di estraniazione. Il libro, in fondo, sembra parlare più alla coscienza collettiva che all’individuo, più al concetto che alla carne. Ciò può limitarne la diffusione presso un pubblico ampio, ma ne amplifica forse la portata esistenziale nelle nicchie filosofiche, letterarie e accademiche.
In conclusione, “Il suono del principio” rappresenta un’importante aggiunta al corpus della narrativa filosofica italiana, segnando un ritorno audace al pensiero della parola come luogo di verità, non solo di comunicazione. È un libro che non si legge, ma si attraversa — si sta in ascolto, come si farebbe con un suono molto antico e molto lontano, che ci riguarda profondamente senza che lo sappiamo spiegare. Il suo contributo alla letteratura risiede non tanto nella forma o nel contenuto, ma nella testimonianza che rende possibile un altro modo di intendere la lingua: non come strumento, ma come tempio.
A cura del Monaco del Libro – Dipartimento di Filosofia del Monastero della Falena Lunare
linguaggio, semiotica ancestrale, estetica negativa, vocalità, filosofia del suono, misticismo medievale, struttura narrativa