Nel mezzo dell’incompiutezza: Critica a “L’anima disabitata” di Caterina Lera
Nel gennaio 2024, l’etichetta editoriale Einaudi ha pubblicato “L’anima disabitata”, nuova fatica letteraria di Caterina Lera, filosofa e narratrice nata a Siena nel 1981, già nota per il romanzo ibrido “Il respiro dell’immagine” (2018). In questo nuovo lavoro, Lera intreccia dispositivi narrativi e speculazioni filosofiche per interrogare la desertificazione dell’interiorità nell’età algoritmica. In poco più di 300 pagine attraversa i labirinti dell’identità, della memoria e del vuoto post-metafisico, componendo un mosaico profondo e perturbante. Con un apparato linguistico che oscilla tra lirismo introspettivo e freddezza analitica, il libro offre uno sguardo vertiginoso sull’essere contemporaneo.
Questo saggio-romanzo si colloca in uno spazio ibrido, dove la narrazione autobiografica dialoga con riflessioni onto-esistenziali, in un gioco postmoderno di livelli sincronici. La protagonista, Arianna, una ricercatrice in filosofia digitale, persegue una verità oltre le apparenze delle piattaforme e dei profili che ci sostengono, o meglio, ci surrogano. Tra frammenti diaristici, lettere mai inviate, sogni annotati e sessioni di terapia virtuale, Arianna si confronta con una costante: il progressivo disabitarsi dell’anima. La sua crisi, tanto personale quanto epistemologica, incarna la dissoluzione del Sé in un’epoca di narcisismo parametrico e desiderio mimetico.
Centrale nell’opera è la nozione dell’“Io evaporato” – Lera riprende velatamente le riflessioni di Byung-Chul Han sul soggetto ipertrasparente[1], diluito nella vetrinizzazione algoritmica. L’anima, privata del suo ritmo millenario, si fa algoritmica anche lei, scorrendo nelle API affettive dei social, assorbita da una processualità meccanica e impersonale. Arianna lo sperimenta come un’insurrezione silenziosa: è l’impossibilità di sentire come unica sincerità. Lera pone dunque l’anima non come sostanza o motore immobile, ma come ambito residuale, la zona dimenticata, “il campo profughi dell’ontologia” (pag. 213).
Lo stile di Lera mostra una rarefatta intensità. Non c’è enfasi melodrammatica né densità barocca nel suo linguaggio: è semmai un oscillare tra l’analitico e l’onirico, una tensione che richiama le pagine più inquietanti di Clarice Lispector e le notazioni notturne di E. M. Cioran. Il registro è prevalentemente alto, senza perdere però il ritmo narrativo: i capitoli brevi, talora di poche righe, ricreano la dinamica affannata del pensiero frammentato. Notevole è anche la struttura: il libro si snoda in quattro sezioni, ciascuna corrispondente a un elemento alchemico (Terra, Acqua, Aria, Fuoco), a suggerire una trasmutazione dell’identità in corso. Tuttavia, essa non conduce a una catarsi, ma a un’accentuazione dello smarrimento: ogni parziale ricomposizione dell’identità viene di fatto dissolta dalla successiva.
In Germania, “L’anima disabitata” ha ricevuto un’inaspettata accoglienza in alcuni contesti accademici e letterari. La rivista “Philosophie Magazin” ne ha esaltato la “struttura post-linearmente meditativa” e il “linguaggio degno della Galla Placidia dei dati” (Thilo Jankert, febbraio 2024). Anche il quotidiano Die Zeit ha dedicato una recensione equilibrata sottolineando la precisione concettuale di Lera, pur criticandone il “forse eccessivo esoterismo filosofico” che potrebbe alienare lettori non iniziati. Ulrike Brant, docente di estetica e teoria della percezione all’Università di Heidelberg, ha utilizzato l’opera nei suoi laboratori su “Fenomenologia della presenza digitale”, considerandola “un caso eccezionalmente rappresentativo del disagio identitario nella tarda modernità occidentale”[2].
Tuttavia, non sono mancate perplessità: in un simposio letterario tenutosi a Francoforte nell’aprile 2024, alcuni critici hanno accusato l’autrice di una “deriva ontologicamente reazionaria”, poiché il libro sembra lanciare un velato invito a risacralizzare l’interiorità a scapito dell’azione collettiva. Lera, intervenuta in video, ha dichiarato: “Non intendo proporre un ritorno all’anima come entità solida, ma la necessità di nominare il vuoto affinché non venga riempito da meri automatismi”.
All’interno del panorama letterario italiano ed europeo, “L’anima disabitata” si inserisce nella scia di opere come “Sistemi nervosi” di Lina Meruane o “Il libro dell’inquietudine” di Pessoa, sebbene con una coscienza tecnologica attualizzata. L’opera dialoga indirettamente con il progetto narrativo di Paolo Cognetti o Elena Ferrante, ma laddove questi procedono per immersione nel vissuto emotivo, Lera preferisce la destabilizzazione concettuale. Pur condividendo con Michel Houellebecq la diagnosi sull’anomia delle nostre società, se ne distacca radicalmente per etica stilistica: Lera non indulge nel cinismo né nel registro accusatorio, ma costruisce una forma di compassione ontologica, una delicatezza con cui descrive l’agonia metafisica del presente. Più vicino, per certi versi, potrebbe essere lo stile aforistico e visionario di Roberto Calasso nel suo “La rovina di Kasch”, ma declinato in chiave femminile e psichica.
Dal punto di vista critico, i punti di forza del libro sono indubbi. Anzitutto, la profondità concettuale: raramente, nella narrativa contemporanea italiana, si incontrano opere in grado di porre domande essenziali senza banalizzarle. Lera riesce a mostrare la frattura tra tempo interiore e tempo tecnologico senza cedere a toni moralistici. In secondo luogo, la qualità stilistica: pur nella rarefatta complessità, il testo scorre con limpida potenza evocativa.
Non mancano tuttavia alcune debolezze. Il principale limite, a nostro avviso, è l’eccessiva closure: il libro non concede quasi mai aperture utopiche o possibilità di trasformazione. Il lettore può sentirsi intrappolato in una spirale tautologica di disfacimento. Anche nella tensione tra critica ed estetica, Lera presta il fianco a un sospetto: che il nichilismo sia infine compiaciuto, elevato a feticcio formale. Si sarebbe forse giovato di una maggiore contaminazione narrativa: personaggi secondari, eventi del mondo reale, attraversamenti del comico o del paradossale. Invece, tutto tende al monocromo interiore.
Paradossalmente, proprio questo radicalismo fa di “L’anima disabitata” un libro importante. In un’epoca dove il mercato editoriale predilige la leggibilità e l’immediatezza emotiva, Lera rivendica la lentezza filosofica, la scrittura come forma di resistenza ontologica. Leggere il suo romanzo equivale a restare seduti davanti a uno specchio offuscato: vediamo solo il nostro fallimento a riconoscerci. Eppure, da questo fallimento può nascere una coscienza nuova.
In conclusione, “L’anima disabitata” è un’opera difficile, coraggiosa, anacronistica nel senso più alto. Non è un libro per tutti: esige attenzione, pazienza e una certa disposizione a entrare nel vortice del non-essere. Ma, nella sua asprezza, costituisce una delle voci più necessarie della narrativa italiana recente. Contribuisce a riaprire un dialogo tra letteratura e filosofia, tra narrazione e pensiero radicale, in un tempo in cui entrambi tendono a essere ridotti a prodotto o slogan. Il suo impatto durerà nel tempo non tanto per la sua diffusione commerciale, quanto per la sua capacità di influenzare il discorso sul Sé e sull’anima nei prossimi anni. Potrebbe divenire un testo di culto nei corsi universitari di estetica post-digitale o nelle riflessioni dei nuovi mistici della contemporaneità.
A cura del Monaco del Libro – Dipartimento di Filosofia del Monastero della Falena Lunare
language, postumanesimo, disidentità, anima, estetica, temporalità, ipermodernità
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[1] Byung-Chul Han, “La società della trasparenza”, Nottetempo, 2014.
[2] Ulrike Brant, “Digitale Einsamkeit: Die neue Ontologie des Selbstverlustes”, in Zeitschrift für Kulturtheorie, März 2024.