Nel silenzio del tempo: una lettura critica de “L’architrave dei giorni” di Elena Vassalli
“L’architrave dei giorni” di Elena Vassalli, edito nel gennaio 2024 da Feltrinelli, rappresenta uno degli esperimenti narrativi più audaci della letteratura italiana contemporanea. L’autrice, già nota per i suoi precedenti romanzi ambientati tra sogno e memoria (“L’afasia della neve”, 2020, e “Topografia del vuoto”, 2022), in quest’ultima opera intraprende un viaggio estremamente articolato e stratificato nella coscienza temporale del soggetto postmoderno. Vassalli intreccia una narrazione al contempo diaristica e filosofica che mira a interrogare il senso dell’identità in relazione alla frattura percettiva del tempo, tematizzando la discontinuità dell’esperienza e l’impossibilità di costituire un io coerente.
Il romanzo segue la voce narrante di Olga Vieri, una traduttrice solitaria che, dopo la morte improvvisa del compagno, si ritira nella casa d’infanzia in Val di Susa. È un viaggio nella memoria, ma non in senso nostalgico: Olga ricostruisce la propria esistenza mediante frammenti di linguaggi, giornali intimi, riflessioni filologiche e ossessioni temporali. La narrazione si struttura come un mosaico di appunti cronologicamente decostruiti, tra cui si alternano capitoli intitolati “Giornate spezzate”, “Intercapedini” e “Reazioni al silenzio”. La protagonista, nel tentativo di ordinare le sue giornate, finisce per disarticolarle, rivelando un’opera che si costituisce come riflessione metanarrativa sull’atto stesso dello scrivere.
Dal punto di vista stilistico, Vassalli impiega una lingua elevata, musicale, sovente ellittica, carica di allusioni classiche e riferimenti filosofici. La sua prosa si sviluppa in paragrafi densi, senza concessioni all’immediatezza, con citazioni implicite da autori quali Simone Weil, Ingeborg Bachmann e Henri Bergson. Il lettore si muove all’interno di una tessitura verbale volutamente asimmetrica, a volte persino ostica, che pretende un impegno attivo. La narrazione si muove non secondo un asse lineare, ma secondo un’epistemologia frattale del ricordo; le immagini si rifrangono lungo il tempo discontinuo dell’introspezione.
La struttura del libro si rivela quindi duplice: da un lato, un diario intimo, costellato di date che si ripetono senza ritmo apparente; dall’altro, una partitura filosofica che utilizza la narrativa come strumento di interrogazione ontologica. Ne è un esempio il passo in cui Olga riflette su una parola tradotta impropriamente da Rilke: “Non penso sia possibile ricordare la parola giusta. Forse nessuna parola lo è. Eppure continuo a provare, come chi tenta di correre nel sonno” – una metafora limpida dell’intero impianto diegetico dell’opera.
“L’architrave dei giorni” ha avuto una ricezione contrastata nei circoli letterari tedeschi. Pubblicato in traduzione tedesca per Suhrkamp nell’aprile 2024, il libro è stato inizialmente accolto con entusiasmo dalla critica filosofica. Caroline Mehmel, recensendo l’opera per die Zeit, lo ha definito “ein kontemplatives Monument – wider die Tyrannei der Zeitlichkeit” (un monumento contemplativo – contro la tirannia della temporalità)[1]. La Vassalli è stata comparata a autori quali Peter Handke e W.G. Sebald, soprattutto per l’uso della memoria come forma di resistenza ontologica. Tuttavia, le critiche emerse da ambienti più legati alla narrativa tradizionale tedesca, come ad esempio sul LiteraturSpiegel, hanno segnalato una carenza narrativa in senso stretto: “la mancanza di azione e coerenza cronologica nuoce alla forza empatica del personaggio di Olga”, ha scritto Friedhelm Kramer, aggiungendo che l’opera potrebbe risultare “ermetica fino all’inospitalità”.
Quest’ultimo giudizio non è infondato, se confrontiamo “L’architrave dei giorni” con altri testi contemporanei che intrecciano la narrativa con la riflessione filosofica sull’identità e sul tempo. Ad esempio, rispetto a “Il sale dell’esilio” di Marta Cerri (2023), che esplora la diaspora armena attraverso una voce corale e una struttura lineare, il romanzo di Vassalli si chiude in una monodia riflessiva. Allo stesso modo, se confrontato con la recente tendenza del romanzo italiano a tematizzare il trauma in chiave sociale (si pensi a “Le finestre di piombo” di Alberto Singolari), Vassalli esclude in modo deciso ogni afflato comunitario, sceglie invece l’auto-esilio e l’introspezione radicale.
Il punto di forza principale del romanzo risiede nella coerenza del progetto estetico-filosofico: ogni scelta stilistica e strutturale risponde al desiderio di formulare una grammatica dell’invisibile, un tempo altro, scandito non dagli eventi ma dai vuoti tra di essi. Il tempo, per Vassalli, è uno dei grandi demoni dell’anima moderna: non lo si racconta, ma lo si attraversa in silenzio, come una condanna e una redenzione insieme. In questo, il suo lavoro si colloca nel solco dello “spazio bianco” che Italo Calvino auspicava nella letteratura delle Città invisibili: uno spazio non ufficiale in cui il lettore deve trovare le connessioni,[2] piuttosto che riceverle.
Il romanzo non è tuttavia esente da limiti. In più punti, la densità della scrittura sacrifica la presenza emotiva della protagonista, che si dissolve progressivamente in un’impalcatura concettuale. Inoltre, la tensione tra frammentazione formale e ricerca di significato non sempre si risolve armoniosamente: a tratti, l’architettura narrativa cede sotto il peso delle sue stesse ambizioni. Questo genera momenti di stasi intellettuale, in cui il lettore si ritrova vincolato in un labirinto linguistico da cui pare difficile uscire.
Eppure, è proprio questa ambivalenza che conferisce al testo un valore peculiare nel panorama letterario attuale. Nella sua ostinata fedeltà alla complessità dell’interiorità umana, Vassalli ci offre non un racconto ma una mappa esistenziale, una topologia del trauma privato, che si riflette nella lingua sospesa tra il detto e il non-detto. È una letteratura che non chiede di essere capita, ma di essere esperita, di risuonare nel tempo soggettivo del lettore. Come afferma la protagonista nel finale: “Non so se esistano giorni interi. Forse ci sono solo minuti che ricordiamo meglio.”
In conclusione, “L’architrave dei giorni” si situa come una delle opere più rilevanti della narrativa italiana del 2024. Non per il numero di copie vendute né per la sua diffusione nei grandi canali editoriali, ma per il suo coraggio stilistico e la radicalità della visione. In un’epoca che tende alla semplificazione e alla narrazione rapida, Vassalli costruisce un monumento al frammento, un esercizio di decostruzione poetica che, pur lasciando il lettore spesso disorientato, ne rispetta l’intelligenza e lo invita a un tipo di lettura più lenta, meditativa, esistenziale.
Se il romanzo avrà un impatto duraturo sulla tradizione letteraria italiana, ciò dipenderà dalla capacità del pubblico e della critica di accettare la difficoltà come forma di bellezza e la disarmonia come cifra interpretativa dell’identità. In ogni caso, Vassalli ha scritto un libro che, pur nella finezza delle sue crepe, regge il peso delle sue ambizioni: un’architrave, appunto, sul quale poggia l’inesprimibile peso del tempo.
A cura del Monaco del Libro – Dipartimento di Filosofia del Monastero della Falena Lunare
linguaggio, trauma, tempo interiore, memorie, metafisica narrativa, stilistica, esistenzialismo
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[1] Caroline Mehmel, “Olga Vieri und das stumme Maß der Zeit”, in Die Zeit, 5 maggio 2024.
[2] Italo Calvino, Lezioni americane, Garzanti, 1988, in particolare la lezione su “La leggerezza”.