Oltre il visibile: un’indagine metafisica in “Le Forme dell’Inesprimibile” di Carlo Tristano
Nel vasto panorama letterario italiano del 2024, si distingue per sottigliezza intellettuale e originalità argomentativa l’opera di Carlo Tristano, “Le Forme dell’Inesprimibile”, pubblicata da Edizioni Ipazia. Un titolo che evoca immediatamente una tensione quasi barocca verso ciò che sfugge alla parola, ma che tuttavia si concreta sul piano narrativo con fermezza e coerenza saggistica. Il libro si pone come un trattato meta-filosofico in veste narrativa: un ibrido sperimentale che fonde riflessione ontologica, racconti simbolici e diagrammi speculativi, difficili da etichettare secondo i generi canonici.
Carlo Tristano — finora noto come filosofo marginale della scuola lombarda di fenomenologia — in quest’opera compie un deciso passaggio dal saggio accademico alla costruzione di una forma letteraria autonoma, ispirata, a suo dire, da autori come Giorgio Colli, Maria Zambrano e Roberto Calasso. Ma se lo stile richiama vagamente queste figure, il contenuto si dirige verso rotte più oblique, con il dichiarato intento di indagare i “modi del silenzio all’interno dell’ontologia occidentale”, come affermato nella prefazione.
Il libro si articola in sette sezioni, ciascuna denominata “forma”, da “La forma della Cifra” a “La forma dell’Eco”, disposte secondo un’architettura che ricorda più i diagrammi medievali che i saggi moderni. Ogni sezione affronta un diverso aspetto del non-detto: l’inesprimibile teologico, il silenzio ontologico, il vuoto semantico e la lacerazione logica prodotta dall’auto-coscienza. L’autore mobilita un ampio arsenale di riferimenti — da Eraclito a Derrida, passando per Simone Weil e Meister Eckhart — senza mai cedere all’eco citazionista. Tutto converte verso una tesi radicale: che il linguaggio fallisca, ontologicamente e strutturalmente, nel momento in cui cerca di nominare l’origine.
Il linguaggio di Tristano è esoterico, barocco e al contempo severamente controllato. La prosa si pervade di sintagmi binari (“rito/abisso”, “suono/traccia”) e d’uso reiterato di anafore e clausole ipotetiche. Tale stile, pur risultando a tratti arduo, instaura una forma musicale interna che avvolge il lettore in una spirale di progressiva sospensione semantica. La struttura del libro non segue né una trama né un flusso logico discorsivo ordinario, bensì una disposizione speculare e circolare, fatta di variazioni e ritorni — un’eco dello stesso tema annunciato nel titolo.
Dal punto di vista editoriale, il libro ha suscitato una certa attenzione in ambito tedesco, in particolare nella comunità critico-filosofica berlinese e lipsiana. Il saggio recensito favorevolmente sul «Frankfurter Allgemeine Zeitung» da Ulrike Mertens, che lo ha definito “un tentativo moderno di costruire un’angelologia postumana attraverso le lacune del linguaggio negativo”, ha diviso il pubblico per la sua intrinseca cripticità. Più critico invece è stato il commento della «Süddeutsche Zeitung», che ha letto l’opera come un “esercizio estetico fine a se stesso, incapace di parlare all’uomo contemporaneo, se non nei riflessi di una metafisica ormai solipsistica”. Tuttavia, anche nei forum filosofici come quello dell’Istituto Hans Blumenberg, vi è stato notevole interesse, soprattutto rispetto alle sezioni V e VI del libro, dedicate all’“inesprimibile storico” e alla “tecno-memoria”.
È utile comparare “Le Forme dell’Inesprimibile” con altre opere recenti, come “Il fantasma della parola” di Ginevra Balducci (2022) o “Atlante del Silenzio” di Luca Andreoni (2023). Se la Balducci aveva proposto un’analisi storico-culturale del concetto di non-detto, filtrata attraverso il cinema e la semiotica, Tristano sembra voler avvicinarsi all’origine stessa dell’esperienza verbale come trauma metafisico. A differenza di Andreoni, che si era concentrato sui silenzi della modernità come resti psicanalitici, Tristano trascende l’orizzonte storico per attingere a una temporalità meta-cronologica, fondamentalmente anacronica.
Dal punto di vista critico, i punti di forza del libro vanno senz’altro rintracciati nella coerenza speculativa e nella ricchezza concettuale. L’esperienza di lettura è simile a un pellegrinaggio alchemico scandito da simboli, layer testuali e glitch semantici volutamente non risolti. Il libro non guida il lettore, bensì lo destabilizza, lo interroga e talvolta lo respinge. Tuttavia, questa radicalità è anche il suo limite. Le troppe chiusure interne e la retorica dell’oracolo rischiano di renderlo inaccessibile a chi non possiede già una solida formazione filosofica e filologica. Inoltre, alcune sezioni (soprattutto la IV, “La forma del Frammento”) risultano eccessivamente autoreferenziali, come se l’autore fosse più preoccupato di proteggere il proprio sistema argomentativo che non di condurlo fino alle sue conseguenze.
Una costante tensione si percepisce nel non voler mai cedere alla narrazione di sé. Tristano non racconta: scrive dispositivi di meditazione. Anche quando introduce episodi biografici — come il misterioso Capitolo 3 della Forma VI, in cui s’evoca il “maestro di Torino, senza nome né volto” — lo fa con una densità simbolica tale da disattivare ogni possibile immedesimazione. È qui che il paragone con Calasso si rivela fondamentale: entrambi gli autori amano abitare il confine tra storia delle idee e mito personale, ma laddove Calasso orchestrava il racconto come rivelazione mitica, Tristano orchestra il silenzio come fallimento costitutivo.
Eppure, proprio in questo paradosso risiede la forza duratura del testo. “Le Forme dell’Inesprimibile” non è un’opera pensata per piacere o per essere compresa pienamente: è un libro alchemico nel senso più puro. Richiede al lettore una riconsacrazione del tempo e dell’attenzione. La sua eredità potrebbe non manifestarsi nell’immediato, ma a lungo termine, presso quelle generazioni di pensatori e lettori che vedranno nella fine del linguaggio non il collasso del senso, ma la sua trasfigurazione.
In conclusione, l’opera di Carlo Tristano rappresenta uno degli eventi letterari e teoretici più rilevanti del 2024. Essa sfida non soltanto il canone narrativo moderno, ma anche le modalità epistemologiche con cui intendiamo la scrittura filosofica contemporanea. Il suo contributo alla letteratura consiste dunque non tanto in ciò che dice, quanto in ciò che ci insegna a non dire. Come nella lezione heideggeriana sul linguaggio come “dimora dell’essere”, Tristano ci rammenta che abitare la parola implica anche conoscerne l’inevitabile caduta.
Pur con i suoi limiti, “Le Forme dell’Inesprimibile” si impone come un’opera destinata a lasciare un segno persistente nei territori, ancora vagamente definibili, della letteratura filosofica e della teoria dell’immaginario. Un testo che sembra uscito da una biblioteca monastica del futuro, e che chiede non solo di essere letto, ma tradotto in lentezza. Perché ciò che non può essere detto deve essere scritto, con la mano tremante della luce che scompare.
A cura del Monaco del Libro – Dipartimento di Filosofia del Monastero della Falena Lunare
linguaggio, metafisica, silenzio, ontologia negativa, memoria, esoterismo, filologia comparata
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1. Si veda: Tristano, C., “Prefazione”, in Le Forme dell’Inesprimibile, Edizioni Ipazia, Milano, 2024, p. IX.
2. Mertens, U., “Ein Buch der Lücken: Zwischen Engel und Fragment”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, marzo 2024.
3. Andreoni, L., Atlante del Silenzio, Il Saggiatore, Milano, 2023.
4. Caputo, L., “L’oracolo e il vuoto: sullo stile teologico di Tristano”, in «Lettere Italiane», vol. 96, n.2, giugno 2024.