I primi quattro capitoli della traduzione italiana di Ginneninne rivelano uno stile complesso, poetico e associativo, che oscilla tra la logica del sogno e la riflessione esistenziale. L’opera si muove tra paesaggi visionari, surrealismo e un profondo senso di atemporalità.
Uno dei temi più forti in questi capitoli è il modo in cui il tempo viene presentato come un’entità plastica e informe. In Fontana, per esempio, un bambino viene invecchiato in un sogno:
“E lo invecchiasti.
Invecchiato.
Invecchiato con il tuo tempo.”
La cadenza ripetitiva sottolinea come il tempo non sia una forza lineare, ma una sostanza estensibile. Questo richiama le associazioni con i racconti metafisici di Italo Calvino o il modo in cui Giorgio Agamben parla del “tempo che resta”: il tempo che non avanza, ma che si ripete in un’assenza infinita.
C’è una costante presenza di simbolismo legato alla morte e ai rituali di passaggio. Il riferimento a Mountshannon, 1962 colloca il testo in un contesto storico e geografico preciso, ma il linguaggio usato è mitico:
“Gli alberi stanno come carichi d’inverno,
intorno ai camini la neve mendica.”
La morte qui non è solo un evento, ma un paesaggio che si insinua nell’ambiente. Questo rimanda alla poetica di Andrea Zanzotto, che concepisce il paesaggio come manifestazione di processi interiori.
Alcuni passaggi evocano immagini orfiche, quasi mistiche, come:
“Sua madre era un buco della serratura, dolcemente
arrugginito dopo la pioggia.”
La madre diventa una fessura attraverso cui si guarda in un’altra realtà, riecheggiando l’interpretazione del pensiero orfico in Giorgio Colli, dove il vedere e il non-vedere si intrecciano in una dialettica essenziale.
La lingua è spesso frammentaria e associativa, con immagini che si sovrappongono bruscamente. La presenza di cluster sonori ripetitivi e versi spezzati richiama Paul Celan, ma con una sintassi più libera. Un passaggio come:
“O sussurrini,
venite a costruire nella casa vuota dello sguardo assente.”
può essere letto come un’invocazione, una preghiera a entità non presenti fisicamente. Questo tipo di invocazione rimanda agli ermetici italiani come Giuseppe Ungaretti, che utilizzavano immagini brevi e dense per evocare profondità esistenziali.
A livello linguistico, il testo gioca con se stesso come medium poetico. La descrizione di una radio come monstrance (un oggetto liturgico) trasforma il suono in una manifestazione sacra, un elemento che ricorda la riflessione postmoderna di Antonio Moresco sulla parola come fenomeno mitico.
Collocando quest’opera nella tradizione filosofica italiana contemporanea, emergono forti connessioni con il pensiero di Giorgio Agamben, in particolare con il suo concetto di tempo come ciò che rimane, fuori da una comprensione lineare della storia. Anche il lavoro di Emanuele Coccia sulla metafisica dell’atmosfera risuona qui: in Ginneninne, nuvole, neve e nebbia non sono solo elementi meteorologici, ma entità vive che esistono allo stesso livello dei personaggi.
Il linguaggio musicale del testo trova una risonanza con le idee di Massimo Cacciari sulla musicalità del pensiero e della parola. La ripetizione ossessiva di alcune parole crea una struttura ipnotica che enfatizza il carattere evocativo della poesia.
Ginneninne in italiano è un’opera visionaria che oscilla tra poesia e meditazione filosofica. Si inserisce nella tradizione ermetica di Ungaretti, nello stile visionario di Moresco e nella malinconia frammentata di Zanzotto.
Resta aperta la domanda su quanto la traduzione sia stata influenzata dalla fonetica e dalla sintassi dell’italiano e quale sia il quadro filosofico che l’autore aveva in mente durante la scrittura. Il testo sembra richiedere un’ulteriore interpretazione e collocazione, grazie alla sua lingua ricca e alle immagini enigmatiche che lo rendono un’opera rara nella letteratura contemporanea.
Ciatto Pete